Altri risultati...

Generic selectors
Exact matches only
Search in title
Search in content
Post Type Selectors
Filtra per categorie
Editore
Franchise
Gioco
Riflessione
Sviluppatore

Altri risultati...

Generic selectors
Exact matches only
Search in title
Search in content
Post Type Selectors
Filtra per categorie
Editore
Franchise
Gioco
Riflessione
Sviluppatore

L’interpretazione dell’interpretazione

Ron Gilbert non ha mai nascosto che per la realizzazione della saga si sia ispirato, almeno in parte, all’attrazione Disneyland “Pirati dei Caraibi”. Questo è deducibile anche da alcuni parallelismi tra scene in “Monkey Island” e parti della corsa dell’attrazione, il più evidente, per citarne uno su tutti, è la scena in “Monkey Island 2” dove Guybrush per uscire dalla cella in cui è rinchiuso offre un osso al cane che tiene in bocca le chiavi, stessa identica scena è presente nella corsa del parco a tema a Disneyland, tra l’altro riportata successivamente anche nel film de “Pirati dei Caraibi: La maledizione della prima luna” del 2003.

L’ispirazione però non sembra fermarsi al setting piratesco o a qualche scena particolarmente simile alla corsa, ma piuttosto alla concezione stessa di attrazione di un parco divertimenti, ossia una momentanea immersione in un immaginario creato ad hoc, dal quale lasciarsi trasportare. Va da sé che, più si è grandi e maturi, meno viene l’effetto di immersione, che è decisamente più di impatto in un bambino che in un adulto, non a caso il parco divertimenti è in primis indirizzato ad un pubblico particolarmente giovane.

Fatta questa doverosa premessa giungiamo all’analisi dei 2 lavori di Gilbert, il primo e soprattutto il secondo capitolo della saga di “Monkey Island”, che ha formalmente aperto lo spunto di riflessione per i suoi contenuti e per il particolare finale a cui arriveremo. Molte teorie si domandano o comunque girano attorno ad un punto sul quale è solo possibile speculare, ossia quale è il segreto di “Monkey Island”. Nella seguente analisi non ci concentreremo su questo ma piuttosto su una serie di elementi che determinano un fatto che più che teorico, è una, non formalmente rivelata, verità, ossia che i primi due capitoli della saga sono frutto dell’immaginazione di un bambino, o meglio sono la reinterpretazione della realtà, attraverso gli occhi di un giovanissimo Guybrush.

Cominciando dal primo capitolo, nel quale ad avvalorare(per adesso solo lievemente) tale tesi vi è l’iniziale introduzione del personaggio: come si è ritrovato Guybrush sull’isola, se questa era sotto embargo da LeChuck che non permetteva a nessuno di entrare o uscire? Vi è poi un particolare anacronismo dato dal distributore di bevande nel porto di Stan, cosa che non sarebbe dovuta esistere “al tempo dei pirati”. Anacronistiche sono anche le T-shirt che il protagonista deve trovare come ricompensa delle tre prove da portare ai pirati per essere proclamato lui stesso un pirata, un oggetto la t-shirt, possibilmente tipico di un evento come anche di un attrazione specifica di un parco a tema.

Abbastanza particolare è anche l’uomo travestito da troll, di certo fuori contesto nel tema piratesco, meno se si considera l’esistenza di altre attrazioni di tutt’altra ambientazione in un parco a tema. Anche una frase di Guybrush è piuttosto particolare: quando infatti affronta in un duello di spada i primissimi avversari, se chiede il perché l’avversario parli così, riceve la risposta: “All pirates talk like this, come on Guybrush! Play along!”, che tradotto sarebbe “tutti i pirati parlano così’, avanti Guybrush, stai al gioco”.

Ma fin qui, tutto questo può benissimo far parte dell’ umorismo e comicità del titolo che sfrutta anacronismi e battute al limite della rottura della quarta parete per intrattenere il giocatore. Ma è nel secondo capitolo che tutto ciò si concretizza, e ci arriviamo attraverso una scena del primo capitolo della saga che ben si collega al secondo: nel vicolo dove parleremo con lo sceriffo Fester, se interagiamo con l’unica porta lì presente, questa non sarà apribile e reciterà la scritta: “Staff Only”, riservato al personale. Visto nell’ottica del solo primo capitolo, può essere considerato anche questa una semplice battuta, ma questa porta è presente anche in Monkey Island 2, che apriremo dall’interno accedendogli da un ascensore, ma andiamo per gradi.

Anche in “Monkey Island 2: LeChuck’s Revenge” vi sono diversi anacronismi e qualche momento di rottura della quarta parete, per citarne uno su tutti la scimmia che serve da chiave per chiudere il flusso della cascata. Prendendo in esame proprio questo esempio, osserviamo come “Monkey Island 2” è diverso dal primo, poiché la realtà irrompe maggiormente nell’immaginazione di Guybrush. Quando deve chiudere il flusso si trova davanti un macchinario decisamente avanzato per il suo tempo e per chiuderlo utilizza una scimmia(monkey) come chiave inglese(monkey wrench). La trasformazione nell’immaginario di un bambino è presto fatta, eppure anche questa può essere considerata una scelta stilistica di umorismo.

Ma dov’è allora che la realtà irrompe nella fantasia e tutti gli indizi e speculazioni si concretizzano in un dato di fatto? Nel finale Guybrush cade in un complesso di tunnel. Questi sono in cemento, con tubature metalliche, lampade rinforzate e l’accesso ad un ascensore, lo stesso che ci porta al vicolo del primo Monkey Island attraverso quella porta inapribile con la scritta “staff only”, questa volta con coni segnaletici ad impedirci di raggiungere il resto di “Melee Island” ed una scritta su un nastro segnaletico che recita ”chiuso per manutenzione”. Tutto ciò è decisamente al di là del tempo di ambientazione della storia e troppo palese ed irruento nello scenario da passarlo per anacronismo comico, inoltre non può essere la maledizione di LeChuck, in quanto l’arcinemico del pirata agisce sulla bambola voodoo (e quindi su Guybrush) solo dopo che questo sia già caduto nel complesso in cemento.

Senza contare le altre stanze presenti nei tunnel, che sembrano magazzini di souvenir o di materiale guasto, vedi le scatole di bambole o la macchina di grog del primo capitolo, particolarmente mal ridotta, per non parlare dei numerosi oggetti avanzati per i tempi come le bombole d’elio o la specie di infermeria con strumenti medici avanzati. A rincarare la dose e permetterci di cominciare a chiudere il cerchio è un dettaglio che può sembrare banale ma di fatto è un ammissione. Nel secondo capitolo Guybrush è alla ricerca del tesoro di Big Whoop, che trova nel finale, rimanendo aggrappato alla corda con in mano lo scrigno. Quando cade lo scrigno si rompe ed è possibile vedere quale era il suo interno, un biglietto-E. Per fare dell’ironia, per scherzarci su, avrebbero potuto mettere qualsiasi cosa, ma Ron Gilbert ha deciso di inserire un biglietto-E che, per chi non lo sapesse, è stata la classe di biglietto più alta nei parchi a tema Disney, con il quale si poteva usufruire di tutte le attrazioni, anche quelle più nuove e per così dire “esclusive”.

Ecco che gli indizi lasciati da Ron iniziano a convergere fluidamente, senza alcuna forzatura, all’idea alla base della saga ideata da Gilbert. Il tesoro che cercava Guybrush era quello che qualsiasi bambino vorrebbe, la possibilità di girarsi tutte le attrazioni del parco e poter continuare la sua fantasia, mentre i tunnel non sono altro che i comuni accessi che hanno tutti i parchi a tema, disponibili ed accessibili solamente al personale autorizzato, che permettono di raggiungere tutte le zone del parco e di conservare materiale guasto o di ricambio, tant’è che ad un certo punto giunge qualcuno del personale a portare i due ragazzi fuori, Guybrush e Chuckie, suo fratello.

Ecco perché la realtà comincia di prepotenza a invadere la fantasia del bambino, perché sa che il fratello lo cerca in quanto i genitori sono preoccupati e probabilmente dovranno lasciare il parco divertimenti, cosa che il giovane Guybrush ovviamente non vuole fare, dunque si sforza di mantenere vivo il mondo da lui creato, ma per forza di cose si sgretola per lasciar spazio alla realtà. Bill Tiller, artista che ha lavorato ad alcuni background del terzo capitolo, si è lasciato sfuggire che tutto ciò è in gran parte vero in un’intervista con il Brimstone Beach Club. Anche Gilbert con diverse sue interviste andava dicendo sulle battute di Guybrush che “molte erano semplici battute, ma alcune nascondevano un significato dietro”.

Infine i due escono dai tunnel e si ritrovano nel parco di Big Whoop, estremamente simile nella struttura e disposizione, alla versione immaginaria di Guybrush dell’isola. La scelta di mostrare sul finale gli occhi rossi di Chuckie, come a dire che LeChuck esiste veramente e tutto è una maledizione voodoo lanciata a Guybrush, serve per creare l’ambiguità finale e lasciare la suspance per l’arrivo del terzo capitolo, che Gilbert aveva già pianificato, permettendo teorizzazioni di questo tipo. Ma dopotutto essa è se vogliamo anche la conferma al giocatore, che il mondo immaginario di Guybrush e Chuckie non è morto, è momentaneamente messo da parte, come quando termina per forza di cose una corsa su un’attrazione e si aspetta di risalirci per un altro giro. Per terminare quindi, tutta l’avventura non è altro che l’interpretazione fantastica del mondo reale da parte di Guybrush, che metaforicamente è l’interpretazione del concetto di attrazione di un parco divertimenti, dove ci si dovrebbe lasciare trasportare dall’immaginazione suscitata dal setting e dalla costruzione dell’attrazione.

Sottoscrivi
Notificami
0 Commenti
Più recenti
Più vecchi Più votati
Inline Feedbacks
Vedi tutti i commenti
Effettua il Log in

Non hai un account?